16 LUGLIO 1989-16 LUGLIO 2019. I trent’anni dalla scomparsa di Marco Lombardo Radice

Riceviamo e pubblichiamo il racconto di Paolo Sabbagh  che ricorda  Marco Lombardo Radice a trent’anni dalla sua scomparsa

Da una parte c’erano i casi disperati dall’altra parte c’era lui, Marco. I casi disperati erano gli adolescenti con patologie psichiatriche gravi e gravissime. Il destino per questi ragazzi era la schizofrenia, il suicidio o l’internamento a vita in strutture psichiatriche. C’erano le ragazze affette da gravi forme di anoressia, i ragazzi che avevano provato a tagliarsi le vene dei polsi o che si erano buttati dalla finestra, chi ormai era ingabbiato nel suo tormentato mondo interiore, non riusciva più ad avere alcun contatto col mondo esterno e stava dalla mattina alla sera a guardare un punto sulla parete senza fare altro.

La lista delle patologie era infinita. Le accomunava il fatto che erano dei tunnel dai cui si usciva solamente con la morte. Erano gli anni ottanta dove le strutture psichiatriche destinate agli adolescenti erano carenti oppure totalmente assenti. Al Secondo Degenza dell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile arrivavano soprattutto ragazze e ragazzi provenienti dal meridione d’Italia, totalmente sprovvisto di strutture sanitarie psichiatriche dedicate ai giovani, oppure provenienti dalle borgate e dalle periferie romane. Gli adolescenti spesso avevano una estrazione sociale proletaria e popolare, provenienti da famiglie culturalmente e materialmente impreparate ad affrontare una patologia psichiatrica. I genitori degli adolescenti disagiati erano costretti a effettuare un lungo quanto inutile peregrinare tra ospedali, pronto soccorsi e ricoveri d’urgenza senza riuscire a trovare una soluzione per aiutare la propria figlia o il proprio figlio.

Marco Lombardo Radice, appena trentenne, già si era fatto una discreta fama nel suo ambiente professionale. Si era formato con Giovanni Bollea il fondatore della neuropsichiatria infantile italiana. Bollea riconobbe subito le potenzialità di Marco e appena specializzato gli affidò il reparto più difficile di tutti, quello dedicato agli adolescenti. Gli bastava una telefonata a Marco per capire quando un caso era estremamente grave, a quel punto lo faceva suo.
Le sue modalità di intervento non prevedevano il rispetto delle prassi e delle convenzioni mediche. Spesso vi andava dichiaratamente contro in quanto ritenute controproducenti. Difficilmente somministrava terapie farmacologiche. Riceveva i pazienti nella sua stanza a reparto, gradualmente vi entrava in sintonia e poi riusciva a decifrare i complicati algoritmi mentali che avevano causato quel mal di vivere con quella determinata patologia. Era questo il segreto del suo intervento: scoprire la mente del paziente, sviscerane le dinamiche da cui era generato quel malessere, conoscere le ragioni più profonde del disagio, IMMEDESIMARSI CON QUEL DISAGIO. Questa conoscenza gli permetteva di dotarsi degli strumenti utili a fare breccia nel tunnel mentale dove si era smarrito il paziente. L’adolescente a quel punto vedeva una luce e, con il proseguo del ricovero, la breccia che Marco riusciva ad aprire nel suo malessere diventava sempre più ampia fino a diventare una via di uscita. “Guarda che adesso non sei più solo, ora in quel tunnel ci siamo in due, puoi aggrapparsi a me” era il messaggio. A quel punto Il paziente era messo nella condizione di non trovare più una motivazione di fondo nell’autolesionarsi, nel tentare il suicidio, nel far prevalere i suoi mostri interiori, nel non mangiare e alla fine quella via d’uscita decideva di imboccarla scoprendo un mondo capace di capirlo e che non gli era più ostile.

Finito il ricovero, proprio perché gli adolescenti usciti fuori da gravi patologie psichiatriche fanno fatica a interagire con le dinamiche della socialità a scuola e negli altri spazi aggregativi, il reparto nel quale il paziente era stato ricoverato rimaneva aperto. Là gli ex degenti trovavano sempre da parte degli infermieri e dei medici un ambiente amico e uno spazio protetto dove passare il tempo, giocare e socializzare con gli altri pazienti ricoverati a reparto. La stessa abitazione di Marco aveva questa funzione; il fine settimana si stava tutti insieme, lui, i suoi pazienti e i suoi amici e la sua casa a borgata Finocchio sulla Casilina diventava uno spazio aperto. Lui ti seguiva sempre, sia se ti serviva un sostegno morale, sia se andavi male a scuola, sia se avevi altri problemi. Il suo impegno non si limitava agli adolescenti. Marco prendeva in terapia anche chi, tra i suoi colleghi e i suoi amici e conoscenti, gli chiedeva aiuto. Lo faceva in modo appassionato senza farsi pagare le sedute. Sapevano che era uno bravo e in molti gli chiesero un sostegno.

Quando, trent’anni fa, in quell’infame 16 luglio 1989 Marco morì di infarto a soli 39 anni, tutto questo ampio mondo che ruotava intorno a lui andò in mille pezzi. La sua mancanza è pesata come un macigno sui pazienti che aveva in cura, sugli ex pazienti guariti e sui tanti conoscenti e amici che aveva e che sosteneva. Molti medici e infermieri del reparto si fecero trasferire, i ragazzi che seguiva persero un punto di riferimento fondamentale.
Dopo la morte di Marco, il suo lavoro e le modalità innovative con le quali ripensò l’approccio al disagio psichico degli adolescenti, furono risaltate e messe in pratica dai medici e dagli infermieri del “suo” reparto, il Secondo Degenza. È stato soprattutto grazie alla caparbietà e all’ostinazione di Graziella Bastelli, caposala del reparto dove Marco lavorava e sua principale collaboratrice, che il suo insegnamento è stato tenuto vivo ed è diventato patrimonio comune della formazione degli psichiatri che si sono specializzati alla Neuropsichiatria Infantile.

Nel 1992 la regista Francesca Archibugi girò un film dedicato al lavoro di Marco, “Il Grande Cocomero”. Dopo il film gli amici, i colleghi e gli ex pazienti di Marco hanno fondato un’associazione che ha preso il nome dal film. L’associazione in oltre venticinque anni di attività ha aiutato centinaia di adolescenti ricoverati alla Neuropsichiatria Infantile a ristabilirsi e a trovare una propria serenità.

Paolo Sabbagh e chi ha avuto la fortuna di lavorare/crescere con lui